lunedì 2 agosto 2021

EUGENIO POL , IL FOLLETTO DEL PANE

 

Eugenio Pol, il folletto del pane 

Vulaiga con pane in segale pura da 6 kg 
Il panificatore racconta la sua vita e il suo lavoro vissuti sempre con il piglio dell'avanguardista. E del racconto sincero di farine, territorio e lieviti 
 

Vulaiga non esiste. Come quella storia del Gotwiarghini, il folletto che sfamava i pastori sul Monte Rosa e custodiva il segreto di un tesoro. In questo caso però non si tratta di oro o di pietre preziose ma di un pane che, chissà come, è arrivato in Giappone e in Australia. Vulaiga non esiste perché non ha un account social, non scrive e-mail, non ha un ufficio stampa e nemmeno uno show room. Vive a Fobello, poco meno di duecento anime in Val Mastellone, valle laterale della Valsesia, dove i boschi hanno resistito ai relais e alle piste da sci. Eppure, Vulaiga, al secolo Eugenio Pol, con la barba lunga, i tatuaggi e i grandi pani da farine macinate a pietra sarebbe perfetto nelle schiere dei panificatori hipster tanto in voga nell’ultimo decennio.

Eugenio però è sempre stato così, lo era già venticinque anni fa, quando ha aperto il suo laboratorio a Fobello, nelle quattro stanze dove lavora tuttora, scegliendo il nome della neve quando svolazza leggera nell'aria. Questa storia comincia però ancora prima e da tutt’altra parte, a Milano, dov'è nato e dove studiava come perito chimico. “Lavoravo e studiavo. Facevo il fattorino per una ditta di stoviglie. Da lì ho iniziato ad appassionarmi di cucina”. Sullo sfondo, imponente, c’è il Monte Rosa e la Valsesia. “Ci andavo da bambino, con mio papà, a pescare e la passione mi è rimasta. Per le montagne e per la pesca”. Impara a cucinare da autodidatta, si sposta in montagna in un piccolo ristorante “dove in inverno si rischiava di restare bloccati dalle valanghe”. Inizia a farsi conoscere e negli anni successivi è un via vai tra Milano e la Valsesia fino a quando inaugura l’Osteria del Muntisel di Varallo. Lì ai fornelli è solo, cucina e fa il lavapiatti. Prova anche a panificare, si interessa di pasta madre chiedendo consiglio a un panificatore lodigiano, uno dei pochissimi, che la usava ancora: “Acqua, farina e aspettare che fermentino” la risposta. Così fa prove su prove e nel frattempo studia sui testi che riesce a recuperare, in tedesco e in francese: “Le parfait boulanger di Parmentier mi ha cambiato la vita” spiega.

In Italia in quel momento nessuno parla di lievitazione, farine e di pane. O meglio di quel tipo di pane che lui inizia a produrre nel laboratorio di Fobello. “Mi sarei accontentato di fare il pane per gli abitanti del posto e passeggiare con i miei cani in montagna”, racconta. Però non accade proprio così: in Val Mastellone arriva Aimo Moroni che vuole portare il suo pane a Milano, così come faranno i Valazza , gli Alajmo, poi Bartolini, Cannavacciuolo, Grasso e Macchia, ma la lista sarebbe ancora più lunga. Il pane di Vulaiga diventa un must tra i ristoranti stellati, i clienti lo chiedono e chi riesce a reperirlo lo usa anche come regalo. Si tratta di un pane che viaggia, sulle lunghe distanze, che si può mangiare anche dopo quindici giorni. “Il pane di giornata è una trovata moderna. Il mio nasce da una madre che è viva, va mangiato fermo, non avrebbe senso farlo fresco tutti i giorni”. Com’era un tempo, quando si preparava nei forni comunitari accesi due volte l’anno: “Il pane di segale che si mette ad essiccare si può mangiare per mesi. Basta prepararlo in luna calante per averlo poi tutto l’inverno. In luna crescente invece potrebbe sviluppare la camelia con il rischio di buttare tutto”. 

Il pane di Vulaiga arriva in Giappone, grazie a una traduttrice di sanscrito che importa prodotti italiani e organizza sessioni di degustazione per gli appassionati. In Australia, “dove non so come sia arrivato”, lo chiamano per tenere dei corsi. Eugenio però resta a Fobello, da dove si sposta solo per fare le consegne con il suo furgone. “Mi hanno anche proposto di aprire dei negozi con il mio nome, facendo da consulente. Ma non sarebbe stato possibile, perché il mio pane sono io”. La madre respira l’aria di Fobello e beve l’acqua che qui è quasi basica. “Il suo Ph, nonostante l’abbia alimentata con cereali diversi, non è mai cambiato in questi anni, perché si è adattato a questo luogo. Altrove non potrei fare lo stesso pane”. Il rapporto con la madre è fondamentale: “Deve nutrirsi con tutto, secondo i suoi tempi”.

Le pantofole di Vulaiga  
Poi ci sono le farine “che tutti tirano in ballo e pochi conoscono. Oggi spesso si parla di farina senza aver mai visto un campo di grano”. Il frumento è come la vite: la stessa varietà piantata in posti diversi si comporta in modo differente. “Il Russello in pianura è tenero, in montagna vitreo. Nello stesso podere, se c’è una collina, il grano a valle assorbe più acqua rispetto a quello in cima e avrà quindi proprietà differenti. L’optimum sarebbe essere buoni agricoltori, buoni mugnai e buoni panificatori”. Eugenio spiega il suo lavoro parlando non di misure, ma di sensazioni: “Bisogna fare sempre attenzione al proprio naso. La fermentazione della madre non è una questione di ore: quando profuma di frutta leggermente acidula allora è pronta. La cottura allo stesso modo non si decide per tempistiche e temperature preimpostate. Basta che la farina abbia un’attività amilasica troppo intensa, ad esempio, e il pane assume una colorazione scura più velocemente”. 
Il pane di Vulaiga (foto\Marco Volpi) 

In questo lavoro bisogna usare tutti i sensi, come quando era da solo in cucina a Varallo. Nel suo repertorio ci sono ancora i prodotti che lo hanno reso celebre: la micca di montagna con farine integrali di farro dicoccum, grano duro Senatore Cappelli, frumento monococco e una miscela di grani teneri antichi e moderni, il pane di segale in grandi forme da 6 chili, il monococco con farina di segale. Il Büf dal Pacalà o Soffio del Diavolo, segale in miscela al 50% con teneri, che, ironicamente, evoca nel nome un pane alsaziano un tempo accusato di provocare flatulenze per via delle troppe crusche nell’impasto. O ancora, nel periodo natalizio, il Pan d'Eugenio, con farine di grano tenero, burro di Normandia, le uova fresche, la granella di cioccolato Calcagno e i canditi di arancia e bergamotto del Caffè Sicilia.  Poi il pane con le ortiche e menta, il pane di San Giovanni da una madre fatta partire appositamente con l'acqua raccolta la notte di San Giovanni, il pane con i semi di carvi, raccolti nelle lunghe passeggiate con i suoi cani. Oppure, e qui c’è tutto il personaggio Vulaiga, il pane AMJ, dal nome di Alexandre Marius Jacob, l’anarchico francese a cui si ispirò Maurice Leblanc per ideare Arsenio Lupin, che si congedò dalla vita lasciando due litri di rosato da bere alla sua salute.

Eugenio oggi produce all’incirca due quintali di pane la settimana, per i suoi clienti storici, e li consegna personalmente con il furgone. Porta a spalle i sacchi di farina nel laboratorio, fino a quando la schiena lo permetterà: "Se c'è un merito che mi spetta, è aver ispirato molti giovani e meno giovani a intraprendere questo mestiere" contribuendo, in modo significativo, a restituire al pane la sua importanza nel mondo del cibo. Non ci sono però aiutanti, allievi, apprendisti, che ne proseguiranno il lavoro: "in questi piccoli spazi non sarebbe stato possibile neppure ospitarli”. “Un giorno  - racconta - mi ha chiamato un’interprete per chiedermi di incontrare un suo cliente giapponese che aveva assaggiato il mio pane diversi anni prima. Arrivato in Italia, si è fatto portare in taxi da Milano a Fobello per conoscermi”.  Quando finalmente lo incontra, si commuove per l’emozione. Vulaiga esiste, probabilmente lo avrà anche raccontato tornando in Giappone. Ma come per il Gotwiarghini, non è detto che qualcuno gli abbia creduto.